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I frenetici anni 50/60. Vintage revival (seconda parte)

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Ritornano i ‘frenetici’ anni ’50 / ’60.
Vintage revival (seconda parte)

Si è detto che “Il delinquente del Rock’n’roll” un film interpretato da Elvis Presley, scatenò una vera e propria ‘rivoluzione’, dando il via al più colossale fenomeno sociale mai visto. Una generazione di giovani si riconosce in lui, si veste come lui, si atteggia come lui, porta i capelli come lui, si scatena nelle strade alla sua musica, entra per la prima volta nei bar, fonda club, dà luogo al più grande fenomeno commerciale della vendita di dischi che si fosse mai visto. I suoi LP e 45 giri vanno letteralmente a ruba, si collezionano, si regalano, i giovanissimi parlano con le parole delle sue canzoni imparate a memoria, indossano blue-jeans e giubbotti di pelle, si lasciano crescer i capelli (il celebre ciuffo alla Presley) , masticano chewing-gum, bevono Coca-Cola, mangiano pop-corn, chiamano le loro coetanee ‘pupe’, si atteggiano al volante di auto, di moto di grossa cilindrata, affrontano la vita ‘on the road’ su imitazione del loro beniamino Jack Kerouac, scrittore, poeta e pittore considerato uno dei maggiori e più importanti scrittori statunitensi del XX secolo, nonché padre della cosiddetta “Beat Generation”, realizzano la propria personalità alternativa. Qualcosa di più di una semplice infatuazione, che diede luogo a un fenomeno collettivo che raggiunse vertici impressionanti nelle generazioni successive. L’ondata di ‘revival’ cui assistiamo oggi, si ripresenta più come ‘nostagia’ di quegli anni, ma che riviverla oggi sembrerebbe più una fuga dalla realtà, “un modo per riappropriarsene, uno stratagemma per vincere la consumazione del tempo” (Argan); un voler sottolineare che le stesse cose tornano solo in quanto diverse, nel momento in cui le difficoltà sembrano prevaricare su tutto, che accresce le perplessità sulle linee da seguire e che disorienta le nostre scelte, per riversarle in fattibili travestimenti del consumismo.
In fondo il ‘rock’, pur osservato nelle sue differenziazioni, non ha mai cessato di esistere, dal fatto che vi si riscontra per via della continuità ininterrotta del suo successo: si pensi solo al gruppo dei Rolling Stones ‘grandissimi’ che, proprio in questi giorni, celebra i 60 anni della sua formazione. Non rimane che cercarci uno spazio fattivo per il prosieguo del nostro “revival” che ormai spazia in ogni direzione lecita (e illecita), che miri a cogliere fra i molti che abbiamo scandagliato, un carattere che si discosti dall’angusta applicazione della categoria dei fenomeni estetizzanti, prodotti da intelletti raffinati dello show-business. Noi invece, abbiamo deciso di spingersi oltre, andando a cercare proprio quelle definizioni che più ci permettono di travalicare le barricate della cultura ufficiale che non ci hanno permesso, fino ad ora, di assecondare la conoscenza, con quella che è la realtà odierna. Secondo la definizione del noto antropologo Alexander Alland (*):
«Il prototipo (culturale) occidentale contempla la distinzione fra arte e non-arte. Certi dipinti, canzoni, racconti, sculture, danze ecc. sono considerati arte, altri no. Chi sposa questa opinione sosterrebbe, per esempio, che è arte La Gioconda? Ma non l’immagine di Elvis Presley dipinta su un velluto nero, perché? la risposta forse ha a che fare con la bravura dell’artista nel cogliere qualcosa di importante incarnato da Elvis e con la cultura alla quale appartengono sia l’artista sia Elvis, cioè con il grado di felicità estetica della trasformazione-rappresentazione. […] Ma la risposta implica in parte il verdetto di quanti si arrogano il diritto di definire la vera arte, di decretare gli stili, i mezzi e le forme appropriati. […] Per i molti che hanno comprato quei ‘dipinti’ (gadget, magliette, poster, ecc.) l’immagine di Elvis creata dal pittore è indubbiamente piena di significato – che lo stile e il mezzo tocchino la loro sensibilità – non dissuade i suddetti santoni dal considerarli paccottiglia. Così, Elvis su velluto per loro non è arte, perché non affronta problemi di estetica, non concerne né il bello né il vero, non palesa la lotta dell’artista per produrre un nuovo stile di espressione, diverso da tutti gli altri che l’hanno preceduto, o perché l’artista sembra ignorare o disprezzare la sperimentazione stilistica che compone la storia dell’arte occidentale. Ciò nonostante, arte non è solo quel che una casta di esperti definisce tale, ma anche significato, abilità, mezzo».
E se noi rispondessimo che Elvis è arte perché nella trasformazione e rappresentazione della sua immagine, l’artista ha espresso ciò che già era bello in natura?
Ovviamente non è questa la diatriba in cui vogliamo cacciarci in questa sede, tuttavia bisognerebbe rifletterci su e magari farne oggetto di una peculiare ulteriore ricerca, (che ne dite?).
Per comprendere il termine trasformazione-rappresentazione della definizione di arte proposta da Alland, dobbiamo qui ricordare che i simboli rappresentano altro da sé. Essendo arbitrari, in quanto privi di connessione necessaria con ciò che rappresentano, si possono separare dall’oggetto o dall’idea in questione per essere apprezzati in sé, e addirittura servire per esprimere un significato del tutto diverso. Ci sono infatti teorie che dimostrerebbero il contrario, almeno sotto l’aspetto cognitivo interiorizzato. Scrive ancora Alland: «Poiché trasformazione e rappresentazione dipendono l’una dall’altra, esse viaggiano accoppiate. Non è che un altro modo per parlare di metafora: un disegno, per esempio, è una trasformazione metaforica dell’esperienza in segni visibili su una superficie; del pari, una poesia e/o una canzone trasformano metaforicamente l’esperienza di un linguaggio denso e compatto. Il processo è uno di quei casi che impegnano l’attività tecnica dell’artista».
Il senso di questa affermazione serve qui a confermare la nostra convinzione che come per la poesia, portata ad esempio da Alland, lo stesso accade per la musica, per il canto o la danza, esattamente allo stesso modo che per ogni altra forma d’arte. Ciò aderisce in modo uniforme al nostro concetto primario che la ‘musica dei popoli’ corrisponde esattamente a quello che i popoli sono nella propria cultura, quindi che i popoli non solo fanno la musica, essi sono la musica che producono. Potremmo anche affermare che la musica è la metafora del mondo in cui viviamo, e viceversa che la musica influisce sulla cultura tanto quanto la cultura influisce sul nostro essere ‘musicali’, ma questo riguarda più quello che è l’effetto della cultura che ci siamo dati sulla musica che produciamo.
Si è già detto di “Orfeo 9”, di Tito Schipa Jr. la prima Opera Rock che si ricorda (oggi visibile anche in DVD) che, molto più tardi, portò in Italia una ventata di freschezza musicale, sebbene mettesse in scena, sulla scia dei recenti successi del West-End e di Broadway, una sua capacità innovativa, fatta di idee e di personaggi inusuali di quegli anni. Era il 1958 allorché un giovane Adriano Celentano interrompeva la ‘forma’ canzonettistica tradizionale, rifacendo il verso proprio a Presley suo beniamino d’oltreoceano, del quale in qualche modo sfoggiava una qualche somiglianza. Per quanto, negli anni a seguire si riscattò dal ‘cliché’ che gli avevano costruito addosso e soprattutto dal plagio esistenziale, riuscendo a dare al rock una vitalità tutta italiana.
Oggi, che a distanza di anni, sembriamo avere ancor più l’esigenza di un vivere ‘frenetico’, solo apparentemente affrontiamo con entusiasmo la ‘nuova musica’ e la recente ‘produzione canora’, ma in realtà è la musica di quegli anni ’50 ’60 che più o meno tutti ci portiamo dietro, come momento ‘unico’, di autentica rivoluzionaria creatività: “un modo come un altro per riappropriarsene, uno stratagemma per vincere il logorio del tempo”. Furono quelli gli anni in cui apparvero sulla scena i cosiddetti ‘Urlatori’: cantanti come Joe Sentieri, Ricky Gianco, Betty Curtis, Little Tony ed altri. Tra i più gettonati, così si diceva per l’uso smodato del Juke-Box: Mina la cui potenza vocale esplosiva, tra gorgheggi e vocalizzi, si rivelò con “Tintarella di luna”; Adriano Celentano, ‘il molleggiato’, con “24mila baci”; Jenny Luna e Fred Buscaglione con “Guarda che luna” e tantissime altre che in realtà, maturò uno stile tutto suo. Tra i più famosi ci fu Tony Dallara, con il suo grido pronunciato, consonante per consonante nelle celebri canzoni “Ghiaccio bollente”, “Ghiaccio bollente” e “Come prima” un po’ singhiozzata, saccheggiò lo stile americano dei Platters.
Scrive Francesco Saverio Mongelli in Le Rane – Music e Pop Culture: “Vite, quelle degli Urlatori, furono raccontate anche in alcune pellicole cinematografiche dirette da Lucio Fulci. Ricordiamo I ragazzi del juke-box (1959), Urlatori alla sbarra (1960), Uno strano tipo (1963). Il primo spazio televisivo concesso agli Urlatori fu durante una puntata de “Il Musichiere”, diretto da Falqui e condotto da Mario Riva. Inoltre, alla fine degli anni Cinquanta nacquero la Fonit Cetra, la Jolly e Dischi Ricordi che permisero all’industria discografica di favorire, a prezzi più contenuti, la diffusione delle canzoni.”
Accadde al “Piper Club”.
L’anno era il 1965. Il luogo, il profetico, clamoroso, fantastico “Piper-Club” di Via Tagliamento a Roma, fondato e guidato dall’allora strepitoso manager (commerciante di automobili) Giancarlo Bornigia con altri soci, uno dei locali storici dell'Italia del boom economico degli anni sessanta e che in poco tempo divenne un'icona di una generazione intera ed un vero e proprio fenomeno di costume in Italia. Il Piper emerse subito come punto focale della bella vita romana, raccogliendo frequentazioni dal mondo dello spettacolo e dell'arte, oltre che da personaggi della scena mondana. Lo storico animatore - intrattenitore del locale, fin dall'inizio e per molti anni, è il giornalista Eddie Ponti. La linea artistica si ispirava al mondo del beat inglese, da cui copiò anche l'idea dell'opera beat, ovvero ad un uso innovativo di luci stroboscopiche colorate accoppiate ai suoni e allo stile dettato dalla moda della minigonna. Alla serata d'esordio suonarono The Rokes e l'Equipe 84, successivamente si susseguirono i migliori gruppi della scena musicale beat italiana tra cui i Rokketti, I New Dada, I Delfini, I Giganti, I Meteors, Gli Apostoli, Le Pecore Nere, Le Facce di Bronzo, affiancati da altri gruppi provenienti dall'estero come The Primitives (tra cui si distinguerà il cantante Mal), Patrick Samson e Les Pheniciens, Lord Beau Brummell and his Noblemen Orchestra, The Echoes, The Bad Boys, The Bushmen (cinque ragazzi di colore del Kenya), The Eccentrics (da cui nascono Mike Liddell e gli Atomi), The Honeycombs, John L. Watson & The Hummelflugs, per citare i più importanti.
A tutti questi si aggiunsero presto artisti del calibro di Nino Ferrer, Fred Bongusto, Dik Dik, Farida, Gabriella Ferri, Rita Pavone, Roby Crispiano, Gepy & Gepy, Nancy Cuomo: su tutti, però, vanno ricordate Caterina Caselli e Patty Pravo passata alla storia del pop proprio come "la ragazza del Piper", per quanto, secondo alcuni, il titolo sarebbe da condividere con Mita Medici che nel 1966, proprio al "Piper", vince il concorso "Miss Teenager Italiana" con il temporaneo nome d'arte di Patrizia Perini. Nel 1965 Mina vi girò una serie di caroselli per la Barilla per la regia di Valerio Zurlini. Dal numeroso gruppo dei ragazzi che si possono considerare frequentatori 'storici' del Piper emergeranno negli anni numerosi personaggi di spicco fra cui Romina Power, Mia Martini, Loredana Bertè e Renato Zero che nel 1982 realizzerà un 33 giri ispirato proprio agli anni del Piper. In quegli stessi anni vi si esibirono i più conosciuti complessi di musica beat e cantanti di musica leggera nazionali ed internazionali più in voga del calibro dei Procol Harum, i Byrds, Rocky Roberts, Nevil Cameron, Herbie Goins & The Soultimers (il cui chitarrista era il virtuoso John McLaughlin), Wess (che divenne famoso cantando in duetto per anni con Dori Ghezzi) e dei giovanissimi Pink Floyd che si esibirono in due serate, il 18 e il 19 aprile 1968. La musica italiana era invece rappresentata da New Trolls, Le Orme, I Corvi, I Delfini. I Pooh, nel 1966, conobbero in questo locale Riccardo Fogli, che entrò poi come bassista nel gruppo in sostituzione di Gilberto Faggioli, e come nuovo frontman.
Da ricordare l'evento ‘Grande angolo, Sogni, Stelle’ organizzato da Mario Schifano il 28 dicembre del 1967, che segnò una delle tappe fondamentali della nascita dell'underground italiano. La serata vide l'alternarsi sul palco di sitaristi, ballerine e poeti che si alternavano alle Stelle di Mario Schifano, il tutto accompagnato da filmati proiettati sul palco su quattro diversi schermi. L'evento fu recensito su l'Espresso da Alberto Moravia anche lui frequentatore del Piper Club insieme a Pier Paolo Pasolini, con un articolo dal titolo “Al Night club con i Vietcong”. Dal 1968 dal Piper partì un'iniziativa già in voga negli anni sessanta, il “Cantagiro”, nella fattispecie del CantaPiper. "Piper Club" è stato inoltre il nome di un'etichetta discografica che ha pubblicato i dischi di molti degli artisti che si esibivano nel locale. Il 21 giugno 1969 esordisce il gruppo Tina Polito e i Parker's Boys [4] formato dall'aggregazione di una giovane cantante affermata nel programma televisivo Scala Reale e dal gruppo dove in precedenza aveva militato Renzo Arbore. La formazione era composta da Angelo La Porta (chitarra), Nicola Zanni (basso), Alberto Catani (batteria) e Gianni Micciola (tastiere).
Si vuole che la linea artistica di quegli anni prendesse le mosse dalla moda inglese, da cui venne copiata anche l'idea dell'opera beat, ovvero di un uso innovativo di suoni e lo stile dettato dai primi ‘musical rock’ anglo-americani come ‘Hair’ (1967) di James Rado e Gerome Ragni (testi) e Galt MacDermot (musica); ‘Joseph and the Amazing Technicolor Dreamcoat’ (1968) di Andrew Lloyd Webber (musica) e Tim Rice (testi). Cioè ancor prima che si acclamasse ‘Jesus Christ Superstar’ (1971) della medisima coppia di autori, oltremanica, al Piper Club di Roma, accadeva un evento straordinario oggi quasi del tutto dimenticato anche negli annali dello storico locale.
Nel maggio del 1967 infatti, un giovane musicista, certo Tito Schipa Jr. (figlio del grande tenore italiano), proprio al Piper Club precorreva i tempi con la sua opera beat “Then an Alley”, costruita su testi di Bob Dylan, all’epoca da noi quasi del tutto sconosciuti. Lo testimonia l’intervista qui di seguito riportata, apparsa su ‘Nuovo Sound’ in quello stesso anno, rilasciata all’autore di questo articolo al Jockey Club di Ben Jorillo ad Aprilia, in occasione della presentazione del nuovo album dello stesso Tito Schipa: “Io, ed io solo” ormai introvabile.

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